L’eruzione del Vesuvio del 79: quando Pompei, Stabia, Ercolano ed Oplonti sparirono

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Il Vesuvio, situato in Campania, è uno dei due vulcani ancora attivi nel continente europeo: il fatto che sia circondato da una zona densamente popolosa, insieme alle sue caratteristiche esplosive, lo rende uno dei più pericolosi al mondo.

Proprio per questo è anche uno dei vulcani più studiati, strettamente monitorato dall’Osservatorio Vesuviano che ne controlla costantemente l’attività.

Prima delle eruzioni

Il Vesuvio non si è sempre manifestato come vulcano attivo: infatti, per secoli, è stato considerato semplicemente una montagna, prospera e ricoperta da folti boschi. Per questo, nell’antichità il rischio della zona non era noto e la fertilità dell’area vesuviana, caratteristica dei suoli vulcanici, avvantaggiò gli insediamenti aumentando il flusso di popolazione e rendendo Pompei, Ercolano, Stabia e Oplonti floride e piene di vita.

L’eruzione avvenuta nel 79 d.C. è uno dei più conosciuti eventi eruttivi del Vesuvio, nonché uno dei primi ad essere documentati grazie a Plinio il Vecchio e alle lettere che il nipote, Plinio il Giovane, inviò a Tacito. Il fenomeno venne descritto in modo talmente meticoloso e pieno di dettagli che, tutt’oggi, il termine pliniano viene utilizzato nella vulcanologia.

L’inizio della fine

Sebbene ci siano stati alcuni segni d’avvertimento nei mesi precedenti all’eruzione, tra cui diverse scosse di terremoto, la popolazione dell’epoca non era in grado di ritenerli tali: niente, per loro, lasciava presagire quello che sarebbe accaduto la mattina del 24 Agosto (data ipotizzata ma non sicura).

Il vulcano, risvegliatosi intorno alle nove del mattino, iniziò la vera e propria attività solo verso l’una del pomeriggio: si sollevò, per diversi chilometri in verticale, una colonna di gas, ceneri, pomici e frammenti piroclastici, creando una nube così grande da oscurare il sole. Le rocce cominciarono a cadere, dirette su Pompei, accumulandosi fino a quattro metri, seppellendo completamente la città. Gran parte della popolazione cercò di fuggire e molti, rifugiandosi nelle cantine, morirono soffocati dai gas tossici che si erano liberati nell’aria.

Ad Ercolano le cose andarono diversamente: fino alle otto del mattino successivo all’inizio del fenomeno, piovve della sottile cenere e, nonostante le scosse di terremoto frequenti, la città rimase illesa per molte ore. Fu questo che spinse gli abitanti a ritornare nelle proprie abitazioni, precedentemente lasciate incustodite, e che costò loro la vita; l’attività vulcanica, infatti, riprese con la colonna pliniana emanando cenere e flussi di materiale piroclastico. Il passaggio di questa nube sulla città fu una catastrofe: spesse mura e tetti crollarono trascinando intonaco, tegole, colonne e travi ad una velocità vicina ai 100 chilometri orari. Quando tutto cessò, la zona intorno al Vesuvio era completamente grigia, desertica. A questo punto, le onde di un maremoto, provocato dai materiali magmatici finiti in mare, investirono i pochi abitanti ancora vivi, rifugiatisi sulla spiaggia.

Le ripercussioni

Dopo poco più di venticinque ore, l’attività eruttiva cominciò a calare fino a sospendersi del tutto. I morti furono oltre duemila e ci fu grande impegno e coinvolgimento da parte dei vertici dell’Impero Romano nell’inviare milizie e navi in soccorso alla popolazione. Benché furono messe a disposizione grandi risorse finanziarie per ricostruire le città distrutte, ci vollero decenni prima che la zona vesuviana tornasse allo sfarzo di un tempo grazie all’imperatore Adriano.

L’eruzione trasformò completamente il profilo e la struttura del vulcano e distrusse le città di Ercolano, Pompei, Oplonti e Stabia che rimasero sepolte, per secoli, sotto strati di pomici. Le rovine furono riportate alla luce solo nel XVIII secolo, valorizzando l’area del Vesuvio di straordinario rilievo ambientale e storico-culturale.

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